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GIORNI IN ABRUZZO D'AGOSTO
2003
Vacanze, Foto, Riflessioni
Che cos'è
l'Abruzzo, chi sono gli abruzzesi. « Abruzzo, parola che
suona all'orecchio aspra e strana, subito mi mette innanzi
il quadro di un paese di bellezza singolare, fiera e
maestosa »: così, nel ”Viaggio negli Abruzzi”, Ferdinando
Gregorovius, che conosceva bene le nostre vallate e le
nostre montagne. « Gli Abruzzi, ecco, per me sono un
mistero, da ragazzo lo ritenevo un paese sperduto tra le
montagne, coperto da un cielo azzurro, avvolto di neve, di
ghiaccio, di vento. Dentro vi vedevo camminare i pastori
dannunziani »: così Domenico Rea. Ma la più bella
definizione viene dal grande Raffaele Mattioli, presidente
della Banca Commerciale Italiana, vastese ed abruzzese
purosangue. Quest’uomo, incredibilmente colto negli aspetti
economici e di diritto monetario, mecenate della cultura,
scriveva: «Si nasce dove si nasce. Se chiedi a un abruzzese
non inurbato - tu di dove sei? - ti sentirai rispondere - di
lu paese me' -. Conosco troppo bene la gente della mia terra
e so quanto sia ritrosa di fronte alle manifestazioni
ufficiali». Queste definizioni spiegano, solo in parte,
perché degli Abruzzi e di noi abruzzesi, in ogni parte del
mondo, si ha una certa idea e memoria. In fondo se andiamo
indietro nella storia, gli Abruzzi stessi sono stati per i
Romani un grosso problema sempre presente fino a quando non
sono riusciti a sottometterli. Dagli Abruzzi l'Impero Romano
ha ricavato il nucleo del proprio esercito e tutta la
struttura burocratica che l'ha reso efficace e duraturo nel
tempo. Già collocato ad oriente, se vogliamo troppo ad
oriente per i Romani, con l'incoronazione di Carlo Magno la
notte di Natale dell'880 e la nascita del regno che verrà
meglio conosciuto con la dizione di Regno delle Due Sicilie,
l'Abruzzo si vedrà collocato per 980 anni troppo a nord per
questo Regno e troppo a sud per tutti gli altri
stati. Questo
sentimento di lontananza, di periferia e di non appartenenza
è ben evidente nella espressione che il Boccaccio mette in
bocca ad uno dei personaggi del Decamerone che,
testualmente, dice: « Per fuggire alla peste di Firenze
bisogna andare più in là che gli Abruzzi ». Ma questa
collocazione periferica non è vera: basta ricordare Federico
II che pose Sulmona capitale d'Abruzzo, dettò ed impose le
regole dell'Editto di Melfi, e l'Abruzzo visse fiorente,
colto e grande per più di tre secoli diventando il crocevia
fondamentale per il passaggio, non solo della strada della
seta, ma anche di quella delle Crociate. Che poi questa
terra fosse sconosciuta al nord Italia è ben documentato da
quanto accadde a Vittorio Emanuele II che, battuti i
papalini nella battaglia di Castelfidardo, superato il fiume
Tronto, si ritrovò senza una carta topografica dell'Abruzzo
e non avrebbe mai potuto incontrare il generale Garibaldi a
Teano se non fosse venuto in suo soccorso il barone Coppa
Zuccari di Città Sant'Angelo che (con in mano le carte
murattiane) indicò al novello re d'Italia la strada che
attraverso il Piano delle Cinque Miglia Roccaraso-Castel di
Sangro portava a Napoli. Per tale aiuto il barone fu
immediatamente nominato Cavaliere dell'Ordine Mauriziano e
deputato al Governo Cisalpino. E' solo a fine 1800 che
l'Istituto Imperiale Geografico inglese inviò in questa
regione un cartografo capace, Edward Lear, che fu il primo a
far conoscere l'Abruzzo in tutto il mondo, ma naturalmente
lesse, vide e trascrisse l'Abruzzo da perfetto inglese.
Collocati in questa posizione e discendenti da popoli come i
marrucini, i peligni, i vestini, i frentani, disegnati e
influenzati dalle montagne, dai terremoti, dalle carestie e
da una povertà a volte disperata, come si è affermato il
nostro carattere? Chi siamo e cosa siamo stati? Mi piace
iniziare dalla citazione di Quinto Ennio « Per avere un
grande esercito, ai Romani sono stati necessari: marsa manus,
peligna cohorts, vestina virum vis », vale a dire: un
manipolo di marsicani, un battaglione di peligni e la forza
degli uomini vestini. I Romani sperimentarono già questo
nella battaglia di Zama e più tardi Ponzio Pilato volle che,
per andare in Galilea, i suoi legionari fossero almeno al
90% di origine abruzzese. L'incontro fra il legionario
romano e Gesù « vi era li' un vaso pieno di aceto. E i
soldati, inzuppata una spugna nell'aceto, la posero in cima
ad una canna d'issopo e l'accostarono alla bocca di Gesù
(Giovanni 10-20). Un legionario, di nome Longino, accostò
poi la sua lancia al costato e lo trafisse e ne uscì sangue
». Nella leggenda abruzzese, quel Longino era un frentano di
origine lancianese. Questo carattere forte, nell'ambito di
una struttura dell'esercito, si rese ben evidente durante la
Battaglia della Beresina dove Giovacchino Murat gettò nella
mischia 8mila abruzzesi. Molti di essi perirono, molti
tornarono con arti amputati dal congelamento e gran parte
con malattie neurologiche dovute all'assideramento. Questo
carattere disposto all'obbedienza, al sacrificio, pronto a
superare tutte le avversità, viene ampiamente confermato dai
morti sugli altipiani di Asiago e durante la ritirata di
Caporetto durante la Prima Guerra Mondiale, ma
principalmente si esprime e si esalta nel fronte
greco-albanese della seconda Guerra mondiale (1940-41) e con
l'Armir nelle anse del Don e nella grande ritirata di
Russia. Non si può capire questi abruzzesi e l'Abruzzo senza
capire Celestino V ( così diceva anche
Ignazio Silone )
e la grande influenza che Pietro da Morrone, ebbe nei secoli
a venire su tutta la vita del mondo abruzzese. Umiltà e
rassegnazione, ma non sottomissione, coraggio delle proprie
azioni, sprezzo sicuramente dei vantaggi. Questo ha
insegnato per secoli Pietro da Morrone, morto, incatenato, a
Castel Fumone. Questo ha continuato a rappresentare il
cardinale Mazzarino da Pescina, che in Francia in tre anni
ristrutturò tutto il sistema burocratico. Carattere e
determinazione fortemente espressi da Giovanni da Capestrano
che, da solo, arringava il popolo viennese nella crociata
contro i turchi per salvaguardare la Slovenia e la Croazia
ed oggi, sepolto a Vukovar, viene considerato un eroe
basilare dell'indipendenza e della sopravvivenza di questi
stati. Da un punto di vista più strettamente culturale, Luca
da Penne divenne in questi secoli il punto di riferimento di
tutto il mondo legislativo ed educativo lasciando ancora
oggi un segno indelebile delle proprie capacità, delle
grandi intuizioni e della continuità di quel diritto romano
mai abbandonato e mai messo da parte. Personaggi dello
stesso livello culturale si esprimono nella Grande
Emigrazione verso gli Stati Uniti, verso l'America del Sud
nel fine ottocento dopo l'arrivo dei piemontesi e dopo il
fenomeno del brigantaggio. Anche in questa occasione la
solita dignità, che nasce sicuramente da un'educazione
derivata dalla transumanza che per 2000 anni ha segnato la
storia sociale dell'Abruzzo. Transumanza significava
allontanamento dalla propria famiglia, significava essere
accettati in terre "straniere", significava rappresentare un
carattere di assoluta onestà e di specchiata affidabilità.
Tutto ciò che ho detto non vuole significare che il
carattere abruzzese è immutabile: prodotto dalla storia esso
può essere modificato dagli avvenimenti attuali e dalla
storia stessa. E' bene però sapere che è stata «una storia a
volte penosa, sicuramente oscura, sempre difficile, in un
ambiente naturale -come diceva Ignazio Silone- quantomai
aspro, dai più tormentati dal clima, dalle alluvioni, dai
terremoti. Da questo è derivata un'estrema resistenza al
dolore, alla delusione, alle disgrazie». E voglio concludere
con Benedetto Croce «...quando c'è bisogno non solo di
intelligenza agile e di spirito versatile, ma di volontà
ferma e di persistenza e di resistenza, io mi sono detto a
voce alta: tu sei abruzzese!».